161.829 tra morti e feriti a Catania e 136.000 senza tetto.
Praticamente tutta la città sarebbe cancellata d’un colpo se si dovesse ripetere un terremoto della stessa intensità di quello del 1693.
E’ quanto emerge dall’inchiesta di Fabrizio Gatti, Un paese sull’orlo del sisma. Un anno dopo le scosse in Emilia, dossier choc sul rischio di terremoti, pubblicata su L’Espresso del 25.5.2013.
In cosa consiste la novità? Per la prima volta si getta uno sguardo sulla Banca dati realizzata dal Servizio sismico nazionale, utilizzando un criterio nuovo.
In essa, infatti, i parametri di progettazione antisismica non sono definiti solo sulla base di un mero calcolo probabilistico, che tiene conto cioè solo della frequenza statistica dei terremoti, ma sono calibrati sull’intensità massima dei terremoti già avvenuti nel passato e sono correlati con il patrimonio edilizio e la situazione urbanistica attualmente esistente.
In tal modo la qualità delle costruzioni diventa una variabile decisiva assieme alla densità abitativa, alla vulnerabilità degli edifici in base all’anno di costruzione e al materiale utilizzato, all’altezza dei palazzi e alla distanza fra di loro.
Esiste dunque una scheda per ogni comune con tutte le previsioni necessarie per valutare gli effetti di un terremoto: numero di crolli, case inagibili, abitazioni danneggiate, percentuale di crolli sul totale, ecc.
Ciò spiega le drammatiche previsioni che riguardano Catania: sommando assieme l’edilizia povera di molti quartieri della periferia storica, gli esiti criminali della speculazione edilizia degli anni ’60 e l’imperversare dell’abusivismo delle nuove periferie, non si può non arrivare a quelle conclusioni. E non parliamo della situazione di molti edifici pubblici e di molte scuole in particolare.
La mappa di pericolosità attualmente adottata invece dalla Protezione civile, e quindi dai Comuni, è risultata in effetti inattendibile già diverse volte perché basata su un approccio probabilistico, cioè sulla probabilità più o meno alta che un terremoto si ripeta nel tempo.
L’Emilia, secondo la mappa, era classificata come zona a bassa pericolosità e a un terremoto di 6.2 era stato assegnato un tasso di probabilità ogni 700 anni; ma questa è solo una probabilità perché in effetti l’evento si può verificare in qualsiasi momento. Lo stesso inconveniente si era verificato con il terremoto in Irpinia del 1980.
La stessa Protezione civile sembra sottostimare il rischio e sembra abbastanza diffusa l’inconsapevolezza dei politici, dei funzionari addetti alle eventuali emergenze e delle popolazioni.
Eppure si calcola che tra il 1968 e il 2009 la gestione dell’emergenza e la ricostruzione sia costata 135 miliardi di euro, l’80 % dei quali sono stati destinati solo agli esiti delle calamità (risarcimenti, ricostruzioni) mentre non è mai stata avviata una seria politica di messa in sicurezza del territorio.
Molti paesi non hanno un Piano comunale di protezione civile per le emergenze e quelli che ce l’hanno non lo hanno mai fatto conoscere ai cittadini e meno ancora lo hanno mai sperimentato con esercitazioni serie, per cui in caso di emergenza, i cittadini non saprebbero dove raccogliersi e i soccorritori dove portare i feriti.
Per essere più concreti basta fare riferimento alla simulazione di una scossa di magnitudo 7 nell’Appennino meridionale. Essa produrrebbe 11000 morti e 15000 feriti, mentre la stessa scossa in Giappone produrrebbe solo 50 morti e 250 feriti. La differenza è dovuta alle tecniche di costruzione e agli investimenti nella prevenzione.
Oltre che sperare nello stellone (ma fino a quando?) non sarebbe il caso che i nuovi amministratori mettessero all’ordine del giorno la questione?
Da http://www.argocatania.org